DARE UN SENSO ALLA FINE

Questa sera i pensieri vengono guidati dalla divina musica di Ennio Morricone che io ed Anita in certi momenti ascoltavamo estasiati, una musica che rimandava ai film che avevamo visto tante e tante volte in TV o sul grande schermo, una musica che ci serviva per dimenticare la durezza della vita quotidiana.

Stasera è una sera particolare nella mia mente, una sera che passo volontariamente nell'oblio del ricordo. Ma è fattibile? È possibile anche solo per un po' dimenticare? Dobbiamo, per salvarci, un po' dimenticare. È un dovere con noi stessi se non vogliamo soccombere.  

Il tempo non agisce affatto come fissativo, ma piuttosto come solvente. Ma noi non ci crediamo perché non conviene, non serve; non aiuta a tirare avanti; perciò fingiamo di non saperlo. 

Poche settimane fa ho letto il romanzo "Il senso di una fine" di Julian Barnes dove fa una riflessione, attraverso la sua narrazione, sul rapporto con la memoria di chi ha subito una perdita di una persona cara, che produce una centrifuga di pensieri apparentemente confusi che tuttavia suscitano un'impressione, un sospetto di autenticità, come quelle vaghe sensazioni di riconoscimento di qualcosa che passa e fugge via prima che si faccia a tempo ad afferrarla. 

Barnes aveva perso la moglie nel giro di qualche mese, colpita da un tumore ed ha vissuto nel suo lutto per circa dieci anni. Oltre ad essere sua moglie era la sua più stretta collaboratrice per la realizzazione dei suoi romanzi. 

Parla in questo libro con voce intima, raffinata, discreta, soffiando nell'orecchio del lettore frammenti di verità che dormono  sotto la superficie della coscienza e all'improvviso risvegliano l'intuizione, la capacità di guardare alla propria vita da una prospettiva diversa. 

Come si fa ad alleviare il dolore di una morte cara? Nessuno lo sa! La verità è che vi sono ferite irrimarginabili, con cui non possiamo che convivere, come certe malattie che non si curano mai, vanno solo gestite. 

Sono tiri alla fune in cui il male cerca di trascinarti a sé, e noi resistiamo, fino a quando raggiungiamo quello stato di imperfetto equilibrio che ci permette di non soccombere e andare avanti. 

La gente mi chiede: Come stai? Ed io rispondo: Bene. Ma non è vero, sto malissimo dentro. Ma come fai a spiegarglielo, e poi perché spiegarglielo, li metterei in difficoltà. Recito una normalità che so di aver perso per sempre. Si impara a recitare una parte come lo fanno gli attori, si diventa un eccellente attore.

Il romanzo di Barnes è bellissimo, contiene ricordi, rimorsi, sensi di colpa, incontri, scelte, stagioni di vita che preludono alla fine, di cui possiamo intuire il senso solo a ritroso e ci permette uno sguardo su quello che siamo stati e su quello che abbiamo perso. Quello che abbiamo perso è molto di più di quello che ci è rimasto. 

Forse si tratta semplicemente di tirare il capo della fune dalla parte di chi sopravvive ad una tragedia simile. 

La St Paul's Cathedral a Londra che appare sulla copertina del libro di Barnes e che ho postato, l'ho visitata con Anita e ricordo tutto nei minimi dettagli, ricordo la sua gioia a stare con me in quel luogo e la mia di stare con lei. Anita come suo solito era splendida e dovevamo tornarci a Londra, avrebbe voluto comperare uno di quegli impermeabili lunghi, neri e di pelle, tipo quelli che usano Neo e Trinity nel film Matrix. 

Morricone sta smettendo di suonare per stasera, il pianoforte fa le ultime battute ed io ho terminato il post e pigio il pulsante sullo schermo per renderlo pubblico con una lacrima che mi scorre sulla guancia e la bottiglia di Valpolicella che avrei voluto dividere con il mio amore. L'avevo tenuta da parte per lei, ma era una illusione, una crudele illusione, una atroce illusione. Morricone con un gesto della mano volteggia le ultime note ed io clicco: pubblica.

Ti avrò sempre nel mio cuore, piccola mia.




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